Intervista a Danilo Goffi

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Come e quando ti sei avvicinato all’atletica e alla maratona in particolare?
Rispetto alla maggior parte dei ragazzi che praticano atletica, io mi sono avvicinato tardi a questa disciplina sportiva. Non perché fossi pigro o svogliato, anzi, ero l’esatto opposto: avevo letteralmente l’argento vivo addosso e per i miei genitori era piuttosto impegnativo mettermi un freno. Dal calcio sono passato gradualmente alla corsa che ho intrapreso in modo sistematico intorno ai 16 anni – fino ad allora correvo solo per divertirmi. A quell’ora ho però capito che correre poteva essere qualcosa di più del semplice divertimento, e così è stato. Nelle prime competizioni mi sono avvicendati tra la pista e le campestri; poi, nel 1995, il debutto in maratona a Venezia per volere della mia squadra, il Gruppo Sportivo Carabinieri, ai quali serviva un atleta per completare il team in gara. Beh, prima maratona, prima vittoria sui 42k e primo titolo italiano di specialità. Non ho iniziato poi così male!

Da piccolo quali erano gli sport che praticavi? E’ stato un amore a prima vista l’atletica o ci sei arrivato per gradi?
Quello con l’atletica non è stato amore a prima vista; ci sono arrivato per gradi, soprattutto per stare insieme ai miei amici. Come pentirti i bambini, il mio primo vero grande amore è stato il calcio. Di costituzione sono però sempre stato esile e gracile, con un fisico quindi non ideale per il pallone e gli scontri con gli avversari. E non è un caso che nella formazione delle squadre…beh, diciamo che non sono mai stato una prima scelta!
Per restare comunque in compagnia dei miei amici e frequentare i miei coetanei mi sono quindi iscritto alla locale società di atletica leggera. Inizialmente quindi, correre per me è stato un modo sia per sfogare la mia incontenibile energia, sia, soprattutto, per giocare il più possibile coi ragazzini con cui son cresciuto. Da sempre non mi convive chi dice che l’atletica è uno sport per persone solitarie: quando ero piccolo, questo sport mi è stato utile per rimanere in contatto con gli amici; e, crescendo, per incontrarne di nuovi. La mia esuberanza, il mio impegno, la mia grinta e la mia dedizione han fatto il resto.

Che ruolo hanno avuto i tuoi genitori, la tua famiglia nello spingerti a praticare sport e nell’incoraggiarti ad arrivare dove sei arrivato?
I miei genitori non mi hanno mai spinto a praticare una disciplina sportiva in particolare, ma sono stati fondamentali per farmi avvicinare allo sport. Sono sempre stato un bimbo dinamico, molto attivo è difficile da far stare seduto a leggere o disegnare; e lo sport era una sana attività per tenermi impegnato in modo sicuro insieme ai miei amici. Ma a differenza di quanto succede oggi, con mamma e papà sempre a disposizione dei figli – me ne rendo conto io in prima persona con Gabriele, 10 anni-, ai miei tempi i miei genitori non avevano tempo di seguirmi.  Mio papà lavorava in proprio, e mia mamma doveva occuparsi della gestione della casa di mia sorella più piccola. Sotto il profilo sportivo mi sono quindi sempre gestito in autonomia: i miei genitori non avevano tempo di accompagnarmi o di seguirmi durante allenamenti, gare e partite. Mi sono fatto da solo, contando sulle mie forze e sulla mia voglia di arrivare in alto ed emergere.

Quali sono stati i tuoi maestri di vita e di sport? Quali sono i tuoi modelli?
Continuo a percorrere la strada della famiglia anche per rispondere a questa domanda: i miei genitori sono stati i miei aratri di vita. Non hanno fatto mai mancare nulla a me e a mia sorella e, soprattutto, ci hanno sempre fatto vivere il loro affetto e il loro amore. Lavorando in proprio, mio papà era molto impegnato con la sua attività; ma non per questo ci trascurava, anzi: io e mia sorella abbiamo sempre potuto contare su di lui. E lo stesso discorso vale per mia mamma, l’angolo del focolare impegnata a correr dietro alle mie marachelle. Insomma, seppur indaffarati e presi per dare a me e a mia sorella il meglio, sapevamo che loro c’erano e avremmo sempre potuto fare loro affidamento.
Dal punto di vista sportivo, più che di maestri di vita mi piace parlare di idoli, di quei grandi campioni che, con i loro risultati, mi hanno portato fin dove sono arrivati e come ci sono arrivato. I loro nomi? Beh, è un parterre de roi di tutto rispetto: Antibo, Mei, Cova, Bordin e Panetta; guarda a caso, tutte persone non solo gradi nello sport, ma anche pulite, genuine, integre e integerrime nella vita di ogni giorno.

Mente, cuore e corpo: in che proporzione contano in quello che fai?
Bella domanda… Ormai è risaputo che la specialità che sento più nelle mie corde è la mattina; e mente, cuore e gambe sono lo spirito, l’essenza di ogni maratoneta. Correre ininterrottamente per 42k e, ancora prima , seguire tutto il percorso di preparazione di una maratona non è uno scherzo: se ti viene a mancare uno di questi tre ingredienti, puoi dire addio ai tuoi sogni di gloria.
Dovendo espormi in una graduatoria, direi che la parte da leone la ricopre l’aereo te con un buon 50%: sottoporsi ad una tabella diarchia lunga e che non fa sconti a nessuno; sostenere uno sforzo prolungato come solo chi corre 42k conosce; adattarsi agli allenamenti e ai carichi di lavoro in qualsiasi condizione perché sai che un errore o un ritardo posso essere fatali; seguire un regime alimentare e uno stile di vita propedeutici alla corsa prolungata: beh, se una persona non è ben convinta e pronta mentalmente, consiglio con tutto me stesso di no iniziare nemmeno.
L’altra metà è equamente divisa tra gambe e cuore: gambe perché è indubbio che serva una adeguata preparazione atletica per la maratona; cuore perché è quello che ti da la forza, la grinta e l’energia necessarie per superare i tuoi limiti e arrivare a tagliare il traguardo.

Cosa ti sentiresti di consigliare ad un giovane che si avvicina oggi alla tua disciplina?
Ai giovani non posso che trasmettere gli insegnamenti che mi hanno lasciato in dote i miei allenatori, i campioni più grandi di me coi quali sono entrato in contatto, i tecnici incontrato durante i raduni con la Nazionale: non basta correre e allenarsi; si deve avere voglia di fare fatica e d sacrificarsi per arrivare in alto. Senza la volontà, la determinazione e la consapevolezza che non sarà una passeggiata, non si va da nessuna parte. Ma vi garantisco che tutto l’impegno o profuso sarà adeguatamente
ricompensato: la gioia che ti regala vincere una maratona o anche solo portarla a termine, non te la dà nessun altro sport.

Quali sono i valori chiave per te nello sport che pratichi e che possono essere usati dai giovani nella vita di tutti i giorni e dai manager all’interno delle organizzazioni aziendali?
Intutta la mia carriera sportiva, ma anche nella quotidianità che vivo al di fuori dell’atletica leggera, ho sempre tenuto a mente tre valori chiave che non mai tradito – e mai tradirò: amicizia, lealtà e legalità; e per esperienza personale, credo che tutti e tre ben si adattino sia ai giovani che ai manager di realtà aziendali.
In primo luogo, l’amicizia. Per me è stata la molla che mi ha fatto avvicinare all’atletica: scartato dal calcio, sport al quale si erano dedicati i miei amici, pur di stare insieme agli altri ho iniziato a correre con loro. E negli anni ho conosciuto tante persone che non solo sono state compagni di squadra, di allenamento o avversari: con molto di loro sono nati degli splendidi rapporti di amicizia, coltivati e arricchiti col tempo. Ognuno di noi ha ora la propria vita; abitiamo in posti lontani, ciascuno con la propria famiglia: ma ci siamo sempre gli uni per gli altri, e ogni occasione è buona per ritrovarsi; e poi, con la tecnologia di oggi, le bandiere fisiche non esistono praticamente più! Questo per dire quanto lo spirito di gruppo che respiravamo in squadra e in nazionale era fondamentale per fare bene e dare il massimo: eravamo nel nostro
Microcosmo in cui si cresceva, si imparava e si migliorava insieme. È normale che in gara ci fossero rivalità e ci si guardasse storto; ma una volta tagliato il traguardo, tutto tornava come prima.
La lealtà e la legalità, due valori strettamente collegati tra loro: ritengo onde tale essere sempre corretti in tutto quello che si fa? Affidandosi alle proprie forze senza strani sotterfugi. E mai come i. Questo periodo è necessario un impegno corale su più fronti per far riemergere questi due valori.
Nella mia carriera ho sempre contato solo su me stesso, su allenamenti costanti, sulla mia voglia di emergere, sulla mia deduzione e sulla mia volontà per portare a casa i risultati che sono stato capace di conseguire. Non fosse stato così, credo che mai crei avuto il coraggio di rivolgere la parola, o persino guardare in faccia chi mi ha accompagnato in questo percorso. Avrebbe significato tradire la loro fiducia, vanificare tutto il lavoro svolto con passione e dedizione. Non credo di sbagliare nel dire che mi sarei vergognato di guardarmi allo specchio: che senso ha gioire per un successo che non hai raggiunto per merito? Come avrei potuto accettare i complimenti ti dai miei tifosi? Con che coraggio avrei potuto guardare negli occhi Tatiana, che ha vissuto insieme a me ogni istante della mia carriera sostenendomi incondizionatamente? Cosa avrei potuto insegnare a mio figlio Gabriele che mi vede come un eroe? Meglio una vittoria in meno, una posizione inferiore in classifica, ma sempre percorrendo la strada della correttezza, della lealtà e della legalità. È una questione di rispetto; e, in primo luogo, di rispetto per se stessi.

Come si dosa lo stress e si vince anche sotto pressione?
Dosare lo stress è un compito, una capacità, un comportamento tutt’altro che facile. Sicuramente ha a che fare con l’attitudine, il carattere di una persona; ma conta anche l’esperienza che con gli anni, col tempo e con un po’ di abitudine ti permette di gestire una componente subdola ma inevitabile come lo stress.
Non è certo una cosa facile, soprattutto per atleti al vertice della propria disciplina: tutti si aspettano sempre il massimo da te, e sembrano non rendersi conto che un atleta é prima di tutto una persona e, come tutti, è praticamente impossibile essere al 100%; vincere e perdere sono i due lati della stessa medaglia tanto nella vita quanto bello sport. Certo, un grande campione dimostra di essere tale anche nella sua capacità di gestire la pressione, di riuscire a non farsi coinvolgere dallo stress.
Personalmente non ho mai avuto grandi difficoltà a non farmi travolgere dall’ansia di prestazione. Riesco ad isolarmi e a rimanere concentrato su me stesso: corro per me stesso, non per soddisfare o compiacere qualcuno; corro per dimostrare che lo sport, la corsa è la mia vita; corro per confermare che è possibile far coincidere passione e professione; corro per far vedere che con l’impegno è possibile arrivare in alto.

Quale è il ricordo più bello della tua carriera agonistica? Che immagini hai davanti ai tuoi occhi? Perchè è il ricordo più bello per te?
Ho avuto una carriera sportiva molto lunga; e, non contento di questa, me ne sono inventato una seconda nella proverà del 2013. È quindi comprensibile che io abbia più di un solo piacevole ricordo; ma due rimarranno per sempre indelebili nella mia memoria.
Venezia 1995, la mia prima maratona, quella della ingenuità come mi piace soprannominarla. È stata la mia prima corsa di 42k alla quale, tra l’altro, non ho partecipato per mia scelta, ma per esigenza del mio gruppo sportivo – G.S. Carabinieri. Non avevo la minima idea di cosa significasse correre una maratona; ma, dopo lo sparo, ho iniziato a correre senza pensare a nulla, e le gambe giravano di buon grado, rispondendo ai comandi della mia testa in modo naturale. E questo debutto è coinciso con la vittoria della gara e il titolo italiano sulla distanza.
Il secondo momento topico è senza dubbio l’argento individuale e l’oro a squadre in maratona ai Campionati Europei di Atletica Leggera di Budapest 1998. Una gara emozionante che mi ha visto nel terzetto di testa dall’inizio alla fine; una gara al termine della gara solo un futuro campione olimpico, Stefano Baldini, è riuscito a battermi nella volata finale.
Di queste due vittorie ho negli occhi ancora tutto: dalla partenza alla condotta di gara, dal traguardo alla cerimonia della premiazione; il tricolore che sventola alto sul pennone e le note dell’inno di Mameli.
Perché è ancora tutto nitido davanti agli chi, nelle orecchi, in testa e sulla pelle? Perché la mia dedizione e i miei sacrifici sono stati ricompensato. E questo è solo l’inizio.

Se dovessi citare un avversario con il quale hai gareggiato e per il quale ricordi un aneddoto particolare che descrive la sfida tra voi due chi ti viene in mente?
Non voglio essere ripetitivo, ma senza dubbio penso a Stefano Baldini: un avversario, un compagno di allenamento, un amico. Siamo due persone diverse, lui più pacato e riflessivo, io più vulcanico ed istintivo; ma apparteniamo entrambi ad una generazione di grandi mezzofondisti e fondisti.
E di aneddoti ce ne sono tanti, dai raduni con la nazionale alle gare che ci hanno visti insieme al via.
Forse quello che ha avuto una costante ciclicità è stata la condotta degli allenamenti comuni: Stefano è molto regolare nella corsa, una sorta di orologio, quindi ha sempre preferito un passo uniforme e costante. Io invece mi sono sempre mosso in base alle mie sensazioni, variando i ritmi di corsa e introducendo continui strappi.
Ecco, potete immaginare le discussioni su questo argomento prima, durante e dopo le nostre sedute di preparazione! A proposito, credo proprio che l’istintività e la non regolarità siano il mio tratto distintivo, il mio asso nella manica e il mio punto di orza: anche adesso, a quasi 43 anni, vietato parlare di regolarità con me!

C’è mai stato un momento nella tua carriera dove volevi smettere o c’è stato un episodio/ un motivo che ti aveva portato a dire basta? Se si…in quell’occasione cosa ti ha fatto reagire?
Per un atleta di alto livello non è mai bello parlare di fallimento e insuccesso; è solo crescendo capisci che anche questi momenti sono comunque situazioni dalle quali imparare, occasioni per fermarti, riflettere e capire cosa vuoi davvero fare.
La mia crisi peggiore risale ancora una volta alla maratona di Venezia, credo fosse il 2010: mi sono ritirato al 30k e ho pensato di essere finito. Ero completamente confuso, perso, non avevo più punti di riferimento. Ma non mi ci è voluto molto tempo per ritrovarmi e, dopo un lungo lavoro introspettivo, avere il coraggio di guardarmi allo specchio per chiedermi cosa volessi veramente a quel punto della mia carriera: è vero, ero caduto, ma non volevo che finisse così; mi sono rimboccato e maniche e mi sono rialzato senza autocommiserarmi, ma riprendendo da dove ero rimasto. E a soli 15 giorni da Venezia sono arrivato quinto alla Maratona di Torino.

3 pregi e 3 difetti del tuo carattere e come impattano sul tuo ruolo di atleta
Modestamente, penso di avere tantissimi pregi!
Scherzi a parte, il più importante è la resilienza, la capacità di soffrire: ho sempre preferito le lunghe distanze, il che significa non solo correre al massimo per molto tempo e sostenere uno sforzo prolungato a lungo; ma anche sopportare una lunga preparazione.
Segue a ruota la caparbietà, per arrivare a dare e ottenere il massimo: impegno, impegno e ancora impegno: senza non si va da nessuna parte, e non solo nello sport.
And last but not least, il talento: è quel quid che purtroppo non tutto hanno; o, meglio, che ognuno ha nel proprio ambito. Io sono stato fortunato a trovarlo, svilupparlo e mantenerlo nello sport; ed è anche grazie al talento che a 43 anni sono ancora competitivo ad altri livelli.
Altrettanto lunga è la lista dei difetti, ma ne voglio ricordare uno soltanto, quello che senza dubbio ha più impattato sulla mia carriera: la fragilità mentale, la mia bestia nera che, soprattutto all’inizio e in più di una occasione importante, non mi ha permesso di vincere qualche medaglia pesante e di aggiungere al mio palmares qualche successo in più.

Che opinione hai degli atleti che in momenti di difficoltà cercano delle “scorciatoie” per raggiungere con meno sforzi i propri traguardi?
In tutta onestà, cerco di non pensarci. Preferisco invece ancora credere che sulla linea di partenza siamo tutti uguali e nella medesima condizione/situazione. Se poi risulta che qualcuno ha fatto ricorso a scorciatoie, non sono io a dover giudicare, ma gli organi preposti a farlo.

Quanto è difficile bilanciare la tua vita agonostica a quella famigliare? Bisogna essere campioni anche in questo?
Credetemi, è molto più difficile bilanciare la vita famigliare con quella da atleta piuttosto che vincere anche la più dura delle maratone! Possiamo stare a raccontarci tutto quello che vogliamo, ma un atleta è suo malgrado costretto a mettere se stesso al centro di tutto, e nella famiglia in primo luogo. Tutti gli altri componenti devono necessariamente ruotare intorno a lui, adattandosi ai suoi ritmi e alle sue esigenze, e facendo gli stessi sacrifici, se non persino più dello stesso atleta. E’ molto difficile conciliare questi due aspetti, ma una famiglia che ti sopporta e ti supporta è fondamentale per raggiungere e mantenere il successo.

Per che cosa ti piacerebbe che i tuoi figli e le persone che ti stanno a cuore ti ricordassero?
Beh, senza dubbio per quello che ho dato, fatto e raggiunto nello sport; ma anche nella vita.
E’ inevitabile che parlare di Danilo Goffi implichi parlare di atletica leggera; il mio nome è e rimarrà perennemente legato alla maratona: correre è la mia passione, la mia professione, la mia dimensione. Ma attraverso lo sport ho cercato sempre di trasmettere valori utili per la vita di tutti i giorni: lealtà, perche i miei avversari sono stati tali solo in gara, poi una stretta di mano e via; correttezza, perché non ho mai cercato vie facili per il successo, e ho preferito rinunciare ad appuntamenti internazionali (Helsinki, per esempio) se non in condizione; determinazione e fiducia in se stessi per impegnarsi a dare il massimo e tagliare il traguardo che ci si è posti; e passione ed impegno perché niente è impossibile lavorando sodo per realizzare i propri sogni.

Quanto è importante per te avere davanti agli occhi degli obiettivi chiari?
Analizzando la mia vita sportiva e trasponendola al mondo del lavoro tradizionale, posso dire che la forma di collaborazione del contratto a progetto è quella che maggiormente mi si addice. Sono sempre stato abituato a lavorare per obiettivi: senza un traguardo da raggiungere (traguardo inteso non solo come arrivo di una gara, ma anche come competizione da preparare), non sarei mai riuscito ad arrivare dove sono e  a fare quel che ho fatto.
E questa mia attitudine è indispensabile oggi ancora più di ieri: ho vissuto sempre al massimo e ad alti livelli nello sport, e senza un obiettivo ben preciso e determinato non mi sarei mai rimesso in gioco e non avrei ancora oggi voglia e forza di correre.

Quale è la tua canzone preferita o quale potrebbe essere la colonna sonora dei tuoi successi?
Non ho una canzone in particolare: mi piace la musica del momento che ogni tanto mi accompagna durante gli allenamenti – anche se preferisco ascoltare me stesso, i miei passi e il mio ritmo, ad essere sincero. A proposito, permettetemi comunque di ringraziare mio figlio Gabriele per prestarmi l’iPod quando voglio correre senza rimanere da solo.

Sei impegnato nel Sociale? In che modo? Sono tematiche per te importanti?
Riconosco di essere una persona molto fortunata perché nella mia vita ho potuto far diventare la mia passione una professione. Ho faticato e sofferto molto, altrettanto mi sono impegnato e ho lavorato: ma farlo per qualcosa che piace non ha prezzo. Ed è proprio per questo motivo che credo molto nel sociale e ritengo fondamentale questo tema.
Appena posso faccio il possibile per mettermi a disposizione di organizzazione impegnate in questa dimensione, diventando così un loro braccio per fare di più o la loro voce per farsi sentire più forte. Valuto attentamente e in dettaglio le proposte che mi vengono sottoposte, e sposo solo quelle che condivido impegnandomi a fondo al loro fianco.
In ordine temporale, l’ultima realtà che mi ha letteralmente elettrizzato è l’Associazione Theodora Onlus per la quale ho corso la staffetta alla SuisseGa Milano Marathon insieme a Denis Curzi, Giovanni Ruggiero e Raphael Tahary: artisti professionisti che allietano le giornate dei pazienti nei reparti pediatrici in moti ospedali italiani e stranieri.

Sei supestizioso? Hai dei riti scaramantici che fai prima di ogni competizione o degli oggetti portafortuna?
Non sono superstizioso, non ho amuleti o portafortuna e non faccio nessun rito scaramantico. Sono una persona molto concreta e credo nel concreto: se hai lavorato bene, farai bene.

Quanto ti alleni? Raccontaci la tua giornata tipo.
Generalmente per preparare una maratona impiego dalle 8 alle 10 settimane con due allenamenti giornalieri per un totale di 13 sedute settimanali. Questo almeno era quello che succedeva quando era un professionista, quando correndo tranquillamente oltre 200K a settimana.
Con l’età mi sono ovviamente dovuto ridimensionare per evitare di sovraccaricare e rovinare il mio fisico. Questo significa 10 allenamenti e al massimo 190K a settimana.
La mia giornata tipo è molto regolare e lineare: sveglia alle 08.00 e colazione alla quale segue una passeggiata col cane per una ventina di minuti circa. E’ poi d’obbligo un salto al bar per un caffè e, tra le 10.30 e l1 11.00, il primo allenamento quotidiano. Pranzo verso le 13.00 e, se previsto dal programma di allenamento, alle 18.00 esco per una seconda sessione di corsa. Si cena tutti insieme in famiglia alle 20.00 e ci si racconta la giornata, concentrandoci soprattutto su mio figlio Gabriele. Riconosco di andare a dormire piuttosto tardi per essere un atleta, verso le 24.00: ma prima di quell’ora non riesco proprio a prender sonno.

Ci racconti il tuo primo successo?
Tralasciando il titolo europeo junior sui 10.000mt a Salonicco nel 1991, la mia prima grande vittoria è stata la maratona di Venezia nel 1995. Ed è stata “prima” sotto diversi aspetti: prima gara di 42K; prima vittoria sulla distanza; primo titolo italiano di specialità. Una gara alla quale, più o meno, sono stato obbligato a prender parte dal mio gruppo sportivo (G.S. Carabinieri); una gara che non avevo idea di cosa significasse; una gara che, adesso posso rivelarlo, ho corso con incoscienza e senza avere idea di cosa fare. E, seppur neofita, ho confezionato un piccolo capolavoro: a 23 anni ancora da compiere ho vinto la mia prima maratona in assoluto in 2:09’23”, portando a casa il titolo italiano sui 42k; e quell’anno, il 1995, il mio crono è risultato poi essere il nono al mondo nella classifica stagionale: beh, credo che meglio di così non avrei potuto fare!
E un altro aspetto molto emozionante è che in quella competizione esordivano altri due campioni oltre a me: Giacomo Leone, secondo a 8″, e Stefano Baldini, sesto a quasi due minuti. Era l’inizio della nostra magica generazione.

Quale maratona ami di più e perchè?
Quale maratona amo di più’…è impossibile stilare una classifica: di primo acchito mi viene naturale rispondere Venezia e Torino perché le ho vinte; ma ne ho corse talmente tante anche all’esto che non saprei dire se New York è meglio di Londra, Berlino, Rotterdam, Budapest o Amburgo.
Diciamo che le amo tutto incondizionatamente perché ho sempre (o quasi) fatto bene e mi sono sempre trovato bene. Certo, è altrettanto naturale confermare che, in assoluto , la maratona più affascinante e forse persino difficile, ma assolutamente da correre almeno una volta nella vita è New York: l’atmosfera, il pathos, l’entusiasmo, il tifo e il livello di competizione che si respira nella Grande mela è unico nel suo genere.

Ci racconti il tuo 1998…
1998: sportivamente parlando, un anno magico, fantastico, unico e irripetibile: in poche parole, il MIO anno.
Tutto mi veniva facile, correvo bene e mi piazza o nelle prime tre posizioni in quasi tutte le competizioni cui ho partecipato. Ho duellato con Stefano Baldini in tutte le specialità, e tra cross, corsa su strada e maratona siamo stati indubbiamente noi due i migliori in quella stagione.
È stato l’anno del mio personale best in maratona, terzo classificato a Rotterdam in 2:08’33”; due settimane più tardi sono andato a vincere il mio terzo titolo italiano sui 10.000 metri, anche qui con personale a Camaiore – 28’28”, e correndo da solo fin fai primi metri; e, in estate, argento individuale e io a squadre in maratona ai Campionati Europei di Budapest.

19 anni di distanza tra i tuoi 2 titoli italiani sulla maratona: quanto diversi sono stati per te?
Sono stati due titoli completamente differenti tra loro; e mai come in questo caso mi sento di dire che…time matters! 19 anni non sono pochi: ho raggiunto una maturità sportiva che, ovviamente, prima mi mancava; sono più consapevole e so ascoltare molto i più il mio corpo, cosa molto importante per ogni maratoneta.
La principale differenza tra i due titoli è stata la mia attitudine e predisposizione verso la vittoria. Nel 1995 ho corso la maratona dell’invio scienza e dell’inesperienza: era la mia prima volta e non avevo idea di cosa aspettarmi; e non è stato un caso che al 35k ho salutato tutti e mi sono involato verso il traguardo.
La gara dello scorso anno invece è stata mio più studiata e ragionata: per non rovinare nulla del lavoro svolto nei mesi precedenti, ho cercato il più possibile di non disperdere energie correndo più con la testa di un esperto 40enne che con la sfrontatezza di un ragazzino poco più che 20enne. E anche questa volta ho avuto ragione.

Cosa ti piace dell’atletica e che cosa -potendolo decidere-  ti piacerebbe che cambiasse?
Dell’atletica mi piace tutto. E non potrebbe essere altrimenti: ho vissuto di atletica leggera, la corsa è stata, è e sarà parte integrante della mia vita, non potrei mai farne a meno.
Ovviamente apprezzo di più un ruolo attivo in questo sport, quindi correre; e correre qualsiasi gara: prediligo la maratona, ma non disdegno pista, cross e corse su strada di varia lunghezza. Ma quando non sono al nastro di partenza, non mi perdo nulla di quello che viene trasmesso in TV; è appena posso, mi piace andare a seguire le gare dal vivo: è un’ottima occasione per salutare amici di una vita, farsene di nuovi, ammirare le prestazioni e lo sforzo fisico degli atleti e cercare di individuare nuovi talenti.
Cosa vorrei cambiare… Più che cambiare, vorrei fare di più: farei qualsiasi cosa per avvicinare e per valorizzare i giovani nello sport, dedicando loro quante più attenzioni possibili.
Il vero e proprio cambiamento che forse serve alla nostra atletica è un altro invece. Scatenerò senza dubbio le ira di qualcuno, ma credo sia necessario eliminare qualche maratona dal nostro calendario: mi piacerebbe che le grandi città italiane avessero una grande maratona capace di convogliare e attirare quanta più gente al via, senza che i runners vengano invece dispersi nelle tantissime gara che affollano il grande calendario, col rischio sia di pochi iscritti, sia di sovrapposizioni di eventi di rilievo.

Cosa manca a tuo avviso ai grandi appuntamenti italiani delle maratone per competere con quelle internazionali?
Credo che il difetto più grosso sia la mancanza della cultura sportiva nel nostro paese o, almeno, per certi sport; e l’atletica leggera è uno di questi. La cosa è lampante, e provata in varie occasioni direttamente sulla mia pelle; l’ultima, lo scorso 12 aprile alla SuisseGas Milano Marathon: gente che nonostante ci fosse una gara in corso, si lamentava e pretendeva di passare sulle strade chiuse al traffico o di attraversare gli incroci anche se non era possibile; imprecando poi per questo disagio.
Al contrario, in una qualsiasi altra città all’estero  la città si ferma e diventa parte integrante della manifestazione: il traffico è chiuso completamente e lungo il percorso è assiepata una vera e propria folla di persone che incitano e fanno il tifo sia per i top runners che per i normo-runners, senza distinzione alcuna.
Purtroppo in Italia non si è ancora arrivati a capire che organizzare una maratona – o una qualsiasi gara, significa anche portare benefici per il luogo teatro dell’evento e smuovere l’indotto: arriva gente, le strutture ricettive lavorano, idem per locali, ristoranti e bar. E la nostra fortuna è poi il nostro patrimonio culturale: abbiamo tante bellezze in ogni angolo, ma non siamo in grado di combinare lo sport con una vacanza culturale. Partecipare ad una maratona in un’altra città è infatti anche una buona occasione per andare a scoprire luoghi sconosciuti; e la maggior parte dei runners si regala interi fine-settimana in posti lontano da casa, accompagnati dalle famiglie: perché quindi non combinare le due cose e far diventare quindi un evento sportivo anche una occasione culturale, per scoprire posti nuovi, sapori insoliti e visitare musei, chiese e via discorrendo?
Ho infatti ancora un grande sogno: mi piacerebbe che un giorno anche le nostre grandi città, Milano, Roma, Firenze, Venezia e Torino registrino 30000 partenti al via delle rispettive maratone, 30000 atleti pronti di invadere con colore, allegria e voglia di correre le loro strade.